Equal Pay Day. Per le donne avvocato (e non solo)
24 Gennaio 2019
A cura dell’avvocato Giorgia Antonia Leone
Si discute di Gender Pay Gap, ovvero della differenza salariale di genere che rappresenta essenzialmente la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne espressi in percentuale del salario maschile, ma la differenza nella retribuzione media oraria rappresenta solo una parte della Disparità complessiva tra uomini e donne. Si parla anche di Gender Overall Earning Gap che invece misura l’impatto di tre fattori tra di loro combinati (guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione) sul reddito medio annuo di uomini e donne.
Nel nostro Stato il divario di genere nei tassi di occupazione rappresenta di gran lunga il principale contributo alla disparità retributiva complessiva (56,3%); seguito dal divario di genere nelle ore retribuite (32,7%) e dal Gender Pay Gap, ossia dalla differenza salariale di genere (11%).
La retribuzione di un uomo che guadagna lavorando dal 1 gennaio al 31 dicembre di un anno, la donna la raggiunge lavorando circa tre mesi in più (divario retributivo pari al 5,3% nel 2018 = Gender Pay Day).
Il divario retributivo di genere in Italia si collega anche alle diverse posizioni ricoperte all’interno delle aziende, in quanto nei ruoli di vertice la prevalenza maschile è ancora netta, nonostante l’evidente crescita al femminile: il 71% dei dirigenti ed il 58% dei quadri sono uomini. Al fenomeno della “femminilizzazione” ossia l’aumento del numero di donne anche per la professione diavvocato, non fa riscontro un corrispondente aumento della presenza delle stesse nelle posizioni di vertice.
La fotografia dei redditi medi dichiarati agli Enti Previdenziali dai lavoratori autonomi negli ultimi cinque anni ha messo in luce, ancora una volta, il divario uomo-donna ed il gap retributivo di genere emerge in tutte le 13 categorie professionali soggette alle Casse di previdenza, incluse, quindi, quella dell’avvocatura al femminile.
Quanto, infatti, alle donne avvocato, stando ai dati forniti dalla Cassa forense, le statistiche ci consegnano l’immagine di un’avvocatura “donna” sempre più numerosa ma decisamente più povera: nella fascia d’età 35-39 anni un uomo guadagna in media 35mila euro, mentre la sua collega donna 21mila, con un divario del 40%. Tale discriminazione pone le professioniste in situazioni di precarieto nel corso della loro carriera, ma ancor di più dopo il pensionamento, con un divario pensionistico di genere registrato in ragione del 36,6%.
Inoltre, si osserva che la fascia d’età in cui le gravidanze sono più numerose quella tra i 35 e i 39 anni: le donne avvocato, quindi, rimandano la maternità per molto tempo, complici la paura di perdere la propria scrivania e la preoccupazione legata a un reddito insufficiente.
La professione forense al femminile, in Italia, non va esente, alla stregua di altre professioni autonome, dal fatto che vi sia una persistente differenza di genere nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro anche per specifiche aree di competenza, ritenute tradizionalmente maschili, tenuto conto peraltro in certi casi delle differenze geografiche, che possono a loro volta condizionare detta partecipazione.
Con la conseguenza che si vengono a manifestare a discapito anche delle professioniste avvocato fenomeni come, ad esempio, la ridotta offerta di servizi sociali destinati al sostegno delle loro famiglie; la scarsa valorizzazione sociale del loro lavoro, nonostante i meriti ed anche il persistere di stereotipi di genere in ambito lavorativo, sino al gap salariale in discussione che è la punta dell’icerberg.
In tutto questo contesto non va sottovalutato il gravissimo rischio che corre l’economia, che è quello di privarsi di talenti che le professioniste avvocato sono in grado di rappresentare.
In conclusione, il gender gap appare non solo ingiusto in linea di principio, ma anche in pratica e solo una forte e seria cornice politico-istituzionale potrebbe condurre un giorno a realizzare un Equal Payment per la categoria professionale di cui faccio parte. Ciò è in linea, perché no, con quanto di recente è accaduto in Islanda, laddove è entrata in vigore una legge che impone a istituzioni pubbliche e private, di assicurare pari retribuzione alle donne a pari qualifica con gli uomini a certe condizioni aziendali, puntando pertanto ad azzerare entro il 2020 le differenze salariali di genere.